Perché la paura fa più danni delle radiazioni

Presentiamo di seguito i risultati di un lavoro pubblicato nel 2019 sull’International Journal of Radiation Biology, Cost of fear and radiation protection actions: Washington County, Utah and Fukushima, Japan {Comparing case histories}, autori Bruce W. Church e Antone L. Brooks. L’articolo è stato recentemente portato all’attenzione del grande pubblico da James Conca per Forbes. Antone Brooks è stato Chief Scientist presso il Low Dose Research Program del Dipartimento dell’Energia statunitense. Bruce Church ha scritto molteplici lavori e monografie sugli effetti biologici delle radiazioni.

Negli anni Cinquanta e Sessanta il deserto dello Utah (USA) fu teatro di test di ordigni nucleari in atmosfera. Nel 1953, uno di questi test, nome in codice Harry, causò una ricaduta radioattiva sulla cittadina di St. George, contea di Washington, nel sud dello Utah.

A quel tempo, lo studio degli effetti delle radiazioni sulla salute umana era agli albori, in quanto da poco si stavano studiando gli effetti sui sopravvissuti dei bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki.

Conformemente alle conoscenze scientifiche dell’epoca e ai limiti di esposizione alle radiazioni vigenti per il pubblico (circa 39 mSv/anno), le autorità raccomandarono alla popolazione di rimanere all’interno degli edifici per evitare un’esposizione no necessaria, sottolineando che non sussisteva nessun pericolo immediato ma che la misura era precauzionale.

Veduta di St. George, nello Utah (foto Wikipedia).

Dieci anni fa, un devastante tsunami causato da uno dei maggiori terremoti della storia sconvolse la costa nord-orientale del Giappone, determinando un incidente nucleare presso la centrale di Fukushima-Daiichi, con successivo rilascio di ingenti quantità di materiale radioattivo in atmosfera.

Nel caos infrastrutturale e comunicativo già causato dal terremoto e dallo tsunami (che insieme costarono la vita ad oltre 19000 persone), le autorità ordinarono l’evacuazione forzata della popolazione da un’area via via crescente intorno alla centrale disastrata, con l’intento di limitare l’esposizione alle radiazioni al di sotto di 1-20 mSv, a seconda dei casi, con la popolazione, che confusa dalla concitazione degli eventi e sfiduciata dalle informazioni contrastanti, tendeva spesso a richiedere l’applicazione del limite più basso possibile (1 mSv).

I dati ad oggi raccolti sull’effettiva esposizione alla radioattività causata alla popolazione dai due eventi e sulle conseguenze sanitarie degli stessi permettono di fare un confronto sull’efficacia o meno delle misure protettive assunte dalle autorità, in relazione alla effettiva entità del danno che si prefiggevano di evitare.

L’esposizione esterna a radiazioni gamma nell’evento dello Utah fu di 2-3 volte superiore a quella di Fukushima(lo studio citato non considera l’esposizione interna, poiché il suo calcolo dipende da molteplici fattori, benché se fosse stata considerata avrebbe ulteriormente allargato il divario tra i due eventi).

La centrale di Fukushima Daiichi vista da Ukedo (foto Massimo Burbi)

D’altro canto, in entrambi i casi le radiazioni non hanno causato danni alla salute diretti (né morti ne ammalati) e tutti gli studi scientifici reputano altamente improbabile anche la possibilità di ricondurre effetti indiretti (quali incremento di patologie tumorali), passati (nel caso dello Utah) o futuri (nel caso di Fukushima), alle radiazioni rilasciate.

Di fatto, lo Utah vanta la più bassa incidenza di tumori negli Stati Uniti, e la contea di Washington occupa le posizioni migliori della medesima classifica a livello statale.

Per contro, numerosi studi negli ultimi anni hanno evidenziato come l’evacuazione della popolazione dalle zone interessate dall’incidente nucleare di Fukushima, inclusi anziani ospedalizzati e ospiti di case di riposo, abbia causato la morte di circa 1600-2000 persone, oltre ad una pesante eredità di disagio psicologico e socio-economico (divorzi, depressione, alcolismo, degrado economico, etc).

Intrattenimento nel centro di Namie Town, nella prefettura di Fukushima (foto Massimo Burbi)

Tale evidenza aveva spinto una commissione di esperti internazionali (ICRP) ad affermare, già nel 2012, che “l’incidente [di Fukushima, ndr] conferma che le conseguenze psicologiche rappresentano l’effetto preponderante di un disastro nucleare. Queste conseguenze sono sostanzialmente ignorate nelle linee guida e negli standard di protezione radiologica.

In altri termini, la paura dell’esposizione a basse dosi di radiazioni rappresenta di gran lunga il maggior rischio sanitario connesso alla gran parte di casi di esposizione alle radiazioni (Waltar et al., 2016).

Mentre la vita nel sud dello Utah è andata avanti normalmente, con una economia florida e una popolazione sana e numerosa, la vita e l’economia delle popolazioni evacuate a causa dell’incidente di Fukushima sono state compromesse pesantemente, in molti casi in modo irreparabile.

Evidenziata la differenza di approccio, e di risultati, nei due casi, rimane da chiedersi cosa abbia portato in 70 anni ad una tale diffusione della paura delle radiazioni tanto da rendere i criteri di esposizione via via più restrittivi e da compromettere la fiducia di vasti settori dell’opinione pubblica nei confronti delle tecnologie nucleari.

Chi fosse tentato di attribuire questi effetti al progresso della conoscenza scientifica nel campo degli effetti biologici delle radiazioni sarebbe sulla strada sbagliata.

Lo studio citato infatti evidenzia come decadi di studi scientifici e di dati raccolti anche utilizzando le più moderne tecniche nel campo della biologia molecolare e cellulare dimostrano semmai il fatto che molti degli effetti negativi sulla salute umana ipotizzati in conseguenza dell’esposizione a basse dosi di radiazione non si verificano.

I dati scientifici nel loro insieme dimostrano che i meccanismi biologici indotti da basse dosi di radiazioni sono molto diversi da quelli indotti da dosi elevate (sopra i 100 mSv) e che in molti casi questi meccanismi sono protettivi, non dannosi, nei confronti delle cellule.

Di conseguenza, l’uso della Linear Non Threshold Hypothesis (LNTH, ovvero la teoria che determina il livello di pericolosità di basse dosi di radiazioni estrapolandolo linearmente dagli effetti osservati alle alte dosi) ai fini della valutazione del rischio non sarebbe scientificamente giustificato.

Se non dai dati scientifici dunque, da dove arriva questa paura crescente delle radiazioni? Gli autori dello studio – e non solo loro – sostengono che essa sia stata alimentata in campo sociale e politico come funzionale all’opposizione – interessata o meno – all’uso delle tecnologie nucleari, anche attraverso il dirompente impiego di un vasto catalogo di libri e pellicole cinematografiche e televisive prive di basi scientifiche, ma di sicuro impatto nel pubblico.

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